Piccole grandi storie del vivere quotidiano




(di Eugenio Ragni)

Credo che pochi scrittori abbiano il dono di essere gli stessi a tavolino e nella vita, riescano cioè a non sdoppiarsi distinguendo più o meno nettamente l'io quotidiano, banalmente assoggettato alle esigenze della sopravvivenza vegetativa e agli obblighi della vita di relazione, dall'io ludens, del tutto diverso e magari antitetico, che a un certo punto si sostituisce al primo e "gioca" a fare il creatore usando suoni parole forme colori. Libero Bigiaretti è uno di quei pochi, anzi pochissimi, che sulla pagina riescono ad essere tanto sinceri e coerenti da coincidere perfettamente con la persona viva, concreta. Chi ha avuto infatti l'occasione e la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo, lo ritrova intatto nei suoi libri, negli estri e nelle sfumature dei caratteri rappresentati, nell'atteggiamento di indulgente comprensione di uomo fra gli uomini, di peccatore consapevole e pertanto mai moralisticamente acre o sussiegoso; e tuttavia non per questo meno severo nel rilevare e bollare falsità, ipocrisie, cattivo gusto (o, per usare termini tutti suoi, divenuti direi paradigmatici, disamori, indulgenze, controfigure, amicizie difficili): le viziosità insomma più frequentate del nostro tempo, che con acutissimo spirito di osservazione riesce a evidenziare nella realtà sociale e nell'intimità individuale.

Bigiaretti ha praticamente attraversato e vissuto l'intero secolo XX, forse uno dei più turbolenti, crudeli e fertili che l'umanità abbia conosciuto nell'età moderna; e lo ha fatto, direi, in punta di penna, intendendo questa locuzione nelle due accezioni possibili, e cioè con invidiabile incisività e con tratto fine e discretissimo. Perché in effetti la qualità che più immediatamente colpisce in Bigiaretti scrittore e in Bigiaretti uomo è senza dubbio la discretio: qualità straordinaria del dettato e del contegno che gli dona l'atteggiamento e la dizione pacati di chi vuol capire per far capire, di chi per natura non ama la retorica perché ne conosce bene i tranelli, gli specchi ustòrii o deformanti intrinseci all'arte del dire; discrezione che è però anche la componente di base dell'affabile disponibilità di cui gratifica chiunque - ospite intervistatore amico conoscente -, a qualunque livello sociale o culturale appartenga. Bigiaretti è infatti un acuto osservatore e descrittore dell'uomo perché è un amante del prossimo, un generoso ascoltatore, uno che riesce miracolosamente a farti sentire a tuo agio, subito, a non imporsi mai come protagonista. [Uso il presente, perché mi ritrovo dentro, intatta, l'atmosfera degli incontri con lui: che persino quando ero liceale appena svezzato e probabilmente un tantino presuntuoso, mi ascoltava con attenzione, facendomi sentire un intellettuale legittimato).

Del resto, la garbata disponibilità dell'uomo e la limpidezza quasi illuministica delle sue analisi interiori sono state le qualità immediatamente còlte dai suoi critici: ne hanno infatti precocemente sottolineato il "garbo indefesso", le "belle maniere", la prudente destrezza narrativa, la linearità stilistica; che sono poi le cifre che da sempre, sulla scia dell'autorevole parere di uno dei nostri esegeti più acuti e ammirevoli, Giacomo Debenedetti, la critica ha riconosciuto peculiari della sua opera.

Garbo e buone maniere, certo; ma con una precisazione assolutamente necessaria. Perché la difficile reperibilità dello scritto debenedettiano - apparso su "l'Unità" del 3 novembre 1946 e mai ristampato in volume, neppure nella recente, ampia raccolta del 1999 curata da Alfonso Berardinelli per i "Meridiani" Mondadori - ha forse dato adito a un fraintendimento di fondo. Non pochi critici hanno infatti inteso la lode di Debenedetti per il "garbo" e per le "belle maniere" come una sostanziale riduzione di Bigiaretti a ottimo elzevirista, ancora legato per alcuni alle eleganze un po' artificiose della prosa d'arte; e a proposito dei romanzi, lo si è spesso affrettatamente definito un narratore lirico e incline allo psicologismo, quindi poco o solo marginalmente impegnato sul piano del costume. E nell'immediato secondo dopoguerra, in tempi di "impegno" quasi obbligato, questa era considerata vera e propria colpa (si pensi soltanto alla polemica Vittorini-Togliatti sulla funzione sociopolitica dell'intellettuale, e quindi del vincolante legame ideologico da esercitare anche in ambito creativo; polemica cui partecipò direttamente anche Bigiaretti, difendendo naturalmente la libertà dell'artista).

Inoltre, la discrezione di Bigiaretti, il suo modo sottile e sommesso di raccontare storie di intimità sentimentali, di disamori, di adolescenze ombrose e sostanzialmente comuni, cioè riconoscibili come crisi naturali, niente affatto esclusive o d'eccezione, contrastava con i clangori del momento: con certo sperimentalismo linguistico che, rifacendosi in parte alle rudezze della realtà postbellica, cercava una nuova, più sincera e diretta aderenza alle cose; e contrastava con le diverse forme della fortunata musa neorealistica, che perseguiva un'impossibile rappresentazione drammatica del reale, nella quale si doveva evitare ogni artificio retorico-letterario, per realizzare una narrazione tutta cose, immagini, fatti, esperienza diretta, al modo di molti scrittori americani. E i personaggi di Bigiaretti erano invece, per precisa scelta, soprattutto grovigli di sentimenti.

Mi sono accorto, a questo punto avanzato della mia esistenza, che, in quanto scrittore, ho passato anch'io troppo tempo alla finestra, a curiosare, con la scusa che uno scrittore è un testimone dell'epoca; a salutare questo e quello con l'altra scusa che lo scrittore deve essere "immerso nella vita" … Che stupidaggine … ci si dovrebbe immergere nella nostra vita, nel particolare che è nostro, per estrarne quello che c'è: carbone, diamanti, ferro, torba, o argilla, e per ricavarne anche gli strumenti che occorrono per la lavorazione (Il dito puntato, Milano, Bompiani, 1967, p 51).

Il non procedere con la banda in testa, il non-presenzialismo, la scelta di restar fuori dai gruppuscoli e dalle camarillas letterarie non giova all'artista, in Italia certamente no, ma forse neanche altrove nel mondo. La modestia, la discrezione, non pagano. Essere troppo "garbati", troppo discreti non fa popolarità. Comunque, va da sé, tutto sta a vedere cosa s'intenda per popolarità (fama, guadagni, presenzialismo), e soprattutto se alla popolarità ci si tiene. E direi che decisamente Bigiaretti non ci tiene; e tantomeno intende rinnegare la propria integrità e coerenza di scrittore:

Sembra che non ci sia più rapporto comune di linguaggio tra chi scrive e chi legge, non ci sia più rapporto tra offerta e richiesta. Il lettore chiede alla letteratura qualcosa d'altro; per poterglielo dare, lo scrittore deve diventare qualche cosa d'altro: per esempio, cronista, memorialista, raccoglitore di minimi scandali, propagandista, uomo di mondo, avventuriero, detective, tagliatore o cucitore di canovacci cinematografici, conferenziere cinematografico. Tutto meno che scrittore (Esercizi di dattilografia, Grottammare, Stamperia dell'Arancio, 1999, p. 14).

Infatti i libri di Bigiaretti, al contrario di quelli di Moravia, ad esempio, non risultano facilmente trasponibili in sceneggiature cinematografiche; e l'esperimento della Controfigura lo ha dimostrato, anche se il fallimento è imputabile in generosa percentuale al regista. I salotti-show del jet set intellettuale e pseudo tale non lo hanno mai allettato. La sua lunga, intelligente e graditissima presenza alla radio nelle vesti di conduttore-causeur d'una fortunata trasmissione del primo pomeriggio non è mai stata un podio per autoincensamenti e autopropaganda: non ricordo di aver mai ascoltato Bigiaretti parlare di un suo libro, mentre trattava invece ampiamente e generosamente dei libri degli altri.

L'urbanità di Bigiaretti uomo e scrittore, dunque, in un'età di sfacciati presenzialismi come quella che ci accompagna da una quarantina d'anni - affollata distratta frettolosa smaliziata, e soprattutto culturalmente pigra - si rivela insomma una caratteristica negativa, zavorrante. Le sue pagine - tutte, da Esterina a Le indulgenze a Le stanze - esigono attenzione: possono risultare sorde o anche banali a una lettura affrettata, superficiale, perché sono invece da soppesare, da penetrare, da far decantare dentro perché se ne liberi tutto l'aroma di eleganza sobria e quotidiana, di attenta indagine psicologica, di costruzione narrativa peculiarmente ma non esclusivamente accentrata su sentimenti d'ogni giorno. Nei libri di Bigiaretti non esistono le passioni travolgenti, non c'è l'epica dell'amore, mancano i coups de théâtre: il loro nucleo è solo e sempre l'analisi di una mediocritas di vita e di sentimenti che è quella dell'uomo comune, quella in cui possono rispecchiarsi le storie di ognuno; sono insomma le piccole grandi storie di forza e di vigliaccheria del nostro vivere quotidiano, di noi uomini normalmente eroi e normalmente vili. È una scelta precisa e decisa di campo che Bigiaretti compie fin dalla sua prima esperienza narrativa, l'ancor oggi ammirevole Esterina; che tra l'altro compie quest'anno ben cinquantanove primavere, e francamente non le dimostra affatto. Leggere per credere.

E non è neppure accettabile l'affermazione, che in alcuni assume il tono di accusa, secondo la quale, troppo assorto nell'analisi degli individui e dei loro sentimenti, Bigiaretti avrebbe trascurato di guardarsi intorno e di inserire perciò i propri personaggi nella Storia. Come ho avuto occasione di dimostrare in un precedente mio intervento sullo scrittore (La storia in punta d'ago, in "Studi romani" XLV, 1997, pp. 59-69), solo cecità o preconcetto possono portare a una simile affermazione, in quanto, al di là delle apparenze e una volta di più sommessamente e discretamente, l'intera opera di Bigiaretti, da Il villino a I figli, da Il congresso a Le indulgenze, fino a Le stanze, a Il dissenso, a Abitare altrove, costituisce una storia d'Italia, via via descritta nelle rifrangenze che la Storia irradia sui personaggi e sui fatti che vengono rappresentati. Interpretando una dichiarazione - ancora una volta improntata a modestia - dell'autore, l'ho definita infatti una "storia in punta d'ago":

Devo imparare a non paragonarmi con persone di formato più grande del mio […]. Devo anche convincermi che, per raccontare la mia storia e le mie storie, io debba far ricorso a un'arte minore […], a un'arte cui si attinge per l'appunto mediante pazienza e affetto. In sostanza: penso mi converrebbe adottare i moduli stilistici e tecnici della famosa tappezzeria della Reine Mathilde, che si trova a Bayeux, in Normandia. Una tapisserie, un arazzo figurato (Le stanze, Milano, Bompiani, 1976, p. 180).

Oggi, nella prospettiva del tempo intermesso, l'aver attraversato praticamente indenne, come Libero ha fatto, le perigliose scogliere del neorealismo, dell'avanguardia, dell'impegno ad ogni costo, risulta un grosso pregio: è non soltanto il segno di una coerenza, ma soprattutto, direi, l'attestato di un'ammirevole fiducia nelle proprie scelte d'origine, di fedeltà al proprio mondo creativo.

È una coerenza che non di rado gli è stata anche imputata a colpa; perfino, con autorevolezza e con affetto, da Valentino Bompiani. Ne vien fuori allora Il dito puntato, una lunga lettera nella quale vengono a galla gli umori sotterranei di un Bigiaretti che si sente pesare addosso come mai prima l'etichetta del "garbato" e del "buon manierato", e che avverte nel contempo, intensa e urgente, la smania di un rinnovamento. A sessantun anni si scrolla infatti di dosso l'innata timidezza e coraggiosamente, coram populo, concretizza nelle pagine di questa sua lettera-pamphlet un esame di coscienza che è anche molte cose in più: enunciazione di un preciso credo letterario, consapevolezza dei propri limiti o, per dir meglio, delle misure del proprio campicello (d'altra parte non occorrono ettari di terra per ottenere buoni frutti); ma soprattutto netta dichiarazione di piena libertà dell'artista che non intende asservirsi al moderno, organizzatissimo ma omologante e frustrante establishment, che non vuole vender l'anima alla sirena del successo ad ogni costo. Ed è anche qualcosa di più importante nell'ambito più schiettamente personale: guardando indietro e definendo nettamente la propria posizione all'interno della narrativa contemporanea, Bigiaretti si costruisce una solida pedana per un bel salto in avanti.

Che senso ha avuto il mio gran trafficare e viaggiare? Mi sembra di capire, adesso, che mi sono voltato indietro e fermato troppe volte, e per questo sono risprofondato, non all'inferno, ma in un mediocre purgatorio. D'ora in poi dovrei procedere in avanti senza più distrarmi e lamentarmi. […] Bisogna che affronti il muraglione dei miei limiti e: o lo scavalco o mi ci rompo la testa.[…] Rompercisi la testa, se si vuole estrarre a ogni costo dalle pietre, cioè dalla disposizione della realtà, una Verità, un Senso. E allora bisogna darci contro con furore non astratto, con rabbia: lo stesso che dire con amore (Il dito puntato, cit., pp. 54-57).

Il libro radicalmente nuovo non sarà il successivo La controfigura, né troppo nuovi, se non parzialmente, saranno i racconti di Il dissenso. A questo punto qualcuno tra i più feriti dall'onesto quanto implacabile "dito puntato", legge in questa coerenza formale e narrativa di Libero Bigiaretti una conferma della sostanziale fragilità dello scrittore, uomo, come del resto egli stesso dichiara, dai molti nitidi propositi e dalle scarse azioni: "Io che ho la natura del dilettante, penso molto a ciò che vorrei fare e faccio poco" (Dito, p. 14).

Ma ecco Dalla donna alla luna (siamo nel '72), che decisamente spiazza la critica: il "garbato" Bigiaretti mimetizzato nel personaggio del sedicente Oreste Basili medita piani di sterminio al fine di "interrompere il circuito delle ingiustizie e delle innumerevoli disattenzioni e storture della storia", identificandosi in questa bisogna d'alto contenuto sociale nell'eroe vendicativo Sartana, un personaggio cinematografico di quegli anni, qualcosa di simile al più attuale Terminator; e questo il personaggio fa riprendendo nella sua pazzia i tratti di un paranoico don Chisciotte, attualizzato nella follia e nei mostri da colpire: la terra andrà definitivamente liberata "dal parassita uomo, il quale […] ne aveva inquinata l'atmosfera, inaridite le fonti, appestati i mari, stracciati a pezzetti e lottizzazioni il manto della flora, insanguinati vasti appezzamenti, cadaverizzata la fauna" (Dalla donna alla luna, Milano, Bompiani, 1972, p. 178).

Il sottile gioco di scacchi tra sentimento individuale e ambiente che era al centro di ogni narrazione di Bigiaretti, si fa in Dalla donna alla Luna polemica aperta, grido d'allarme diretto, anzi grido tout court. Non più dunque un dramma (apparentemente) ristretto alla coppia o a un ambiente, ma dramma collettivo, moralità apocalittica. Il tutto incartato in uno scintillante estro satirico, quell'estro sempre sotteso e sommesso dei libri precedenti - penso in particolare a Le indulgenze - che qui esplode irrefrenabile, rompe le dighe della discretio per comporre una favola morale che non è, si badi, un divertimento dell'immaginazione, ma è la storia di una pazzia indotta, di un'aberrazione mentale colpevolmente provocata in un soggetto più labile di altri dalla violenza e dalla stupidità dell'uomo (non a caso vi ricorre il ricordo di un'esperienza in un lager, fra tutte le violenze la violenza più aberrante che l'uomo abbia inventato e organizzato per l'uomo).

E c'è un Bigiaretti nuovo anche nello stile. Credo che trovando il libro privo di copertina e di riferimenti editoriali, difficilmente un postero riordinatore lo allineerebbe con Il villino o Carlone o I figli. Risulta arduo, per non dire impossibile, declinare un regesto esaustivo della tastiera bigiarettiana, soprattutto perché la singola soluzione - che va dalla neoformazione al collage di reminiscenze scolastiche, dal lessema tecnico al dialettismo e così via - non può dare, per quanto l'esemplificazione possa essere abbondante, il sapore di estrema ricchezza e varietà e inventiva di una scrittura che trova la propria linfa vitale soprattutto negli accostamenti e nelle iterazioni calcolate dei diversi registri e timbri. Linguaggio ibrido, certo, come ebbe a notare Arnaldo Bocelli: ma a parte l'esigenza di adeguare "realisticamente" lo stile ai toni di uno sfogo paranoico qual è quello del protagonista - esigenza evidentemente sfuggita all'illustre critico -, l'accumulo di toni e di registri è il segno più eminente di un mutamento anche e direi soprattutto interno, intimo dell'autore, non più disposto alla timida pacata educata reprimenda, non più tanto disponibile alla comprensiva paternale per la scappatella senza seguito, ma posto ora di fronte, drammaticamente, alle azioni cieche di un'umanità che fa di tutto per farsi del male. Bigiaretti è finalmente arrabbiato.

E se con il salto di qualche anno e di qualche libro si passa a considerare Le stanze, si potrà meglio misurare quanto la svolta decisiva di Dalla donna alla luna abbia rinnovato la tavolozza di Bigiaretti. In questo libro - che tra parentesi non è stato adeguatamente valorizzato nei suoi giusti meriti - in questo consuntivo della propria vita di scrittore e di uomo evidentissimi risultano i legami, nello stile e nel contenuto, con Il dito puntato e con Dalla terra alla luna. Ed evitando un noioso regesto di riscontri che chiunque potrà istituire collazionando i due libri, mi limiterò a richiamare l'attenzione sul dato stilistico, che presenta anche qui registri diversi, ma che indubbiamente si delinea come un amalgama compatto, pacificato, direi, nei suoi elementi eterogenei; non più accumulazione, ma fusione quasi perfetta di elementi dissimili, con il risultato di un timbro nuovo, di una prosa scorrevole, elegante ma modernizzata quanto basta, ardita in misura ottimale, ricca di risonanze interessanti e inedite. Quanto all'invenzione, alla disposizione della materia, a come insomma vengano evitati i tranelli più consueti dell'autobiografia, si veda come in Le stanze Bigiaretti si ponga costantemente in discussione e spesso in ridicolo, con un'autoironia non troppo frequentata, ahimé, nel mondo letterario italiano. Non c'è nessun stream of consciousness, nessun divanetto freudiano, ed è evitata perfino la madeleine proustiana con tutto il suo enorme strascico di sapori-ricordi-odori. Siamo invece in un appartamento, abbastanza ampio (sette stanze), interdetto ai non invitati (non vi entra che lui, l'autore), dove si succedono via via, evocati, ospiti e situazioni e dove, dunque come in un museo vivente, (ma dire "museo" è sbagliato, perché l'appartamento è vitalissimo, senza polvere; meglio definirlo un luogo dell'anima diviso in settori spazio-crono-sentimentali), come in un museo animato da persone e fatti veri, proprio come vivi e veri sono i ricordi, tornano un mondo straordinario, personaggi che oggi sono nei libri e altri che il merito non ha sufficientemente difeso dall'oblio, ma che sono stati in qualche modo importanti per l'autore. Al centro di tutto, naturalmente c'è lui, Bigiaretti, che governa registicamente le entrate e le uscite con un'abilità nei passaggi e nelle associazioni, tale da riuscire a comporre i tanti quadretti in un disegno unitario: che altro non è, in definitiva, che il racconto della sua vita, delle sue amicizie, delle sue omissioni, delle sue cecità, dei suoi propositi e progetti, dei suoi peccati. Del suo essere uomo tra gli uomini.

Ma non è, la sua, una presenza demiurgica: Bigiaretti non smentisce neppure qui il proprio "garbo"; sicché i personaggi non sono, mi si perdoni la neoformazione, "bigiarettizzati": restano miracolosamente autonomi. La loro personalità non viene intaccata in nulla, né dalla doratura degli affetti o della lontananza, né dalla reverenza che può ispirare di per sé la grandezza del nome: il padre o le sorelle, l'amico o il collega sono come Neruda, come Siqueiros. Bigiaretti non si gloria mai delle proprie conoscenze-celebrità, davanti alle quali si dispone sempre in atteggiamento rispettosamente familiare, spontaneamente e consapevolmente umile, privo di qualunque fastidiosa, artefatta deferenza, ma non per questo acritico.

E non si assiste in Le stanze a più o meno furiosi e masochistici tracciamenti di vesti, a pianti e rimpianti: i parati di questo suo appartamento sono color ironia, e color d'ironia sono le lenti con le quali Libero guarda ad ogni possibile amplificazione sentimentale o letteraria di episodi personaggi luoghi: e basterebbe leggere quel che dice della sua Matelica, l'amata-odiata sua città dell'anima.

La propria famiglia; il paese dov'è nato: Roma, la città che lo ha adottato e dove ha vissuto la maggior parte della vita; l'eccitante, inedita e anche difficile esperienza all'Olivetti di Ivrea; le mille persone conosciute nei numerosi viaggi e negli incontri in Italia e all'estero: non c'è dubbio che la memoria costituisca il nucleo primario e costante dell'ispirazione di Bigiaretti. E da sempre, se già in due brevi poesie - quasi epigrammi - risalenti a metà anni Trenta, e ancora inediti, dichiarava, con accenti e misure decisamente ungarettiani:

Solo mi giova il risonar degli echi
Che memoria, pietosa, mi raduna.

Ah, più che ogni altro abbandono,
il cuore teme il distacco
dei compagni ricordi.


Ma anche sulla fruizione e funzione della memoria occorre un chiarimento che reputo essenziale. In ogni romanzo e in tutti i racconti lo scrittore ha inserito, come accade ad ogni autore, i propri ricordi e le esperienze vissute nei diversi momenti della propria vita: da Il villino a Le stanze, Bigiaretti ha raccontato dunque non solo se stesso ma la propria famiglia, ha fatto di Matelica una delle non molte "città dell'anima" di un qualche spessore nella storia della nostra narrativa novecentesca. Ma il racconto autobiografico è stato sempre, costantemente, fedelmente fruito a livello di exemplum, cioè di testimonianza diretta - voglio dire non pretestuosamente architettata o di seconda mano, e pertanto artificiosamente letteraria - di una vita italiana che, come migliaia e migliaia d'altre, ha vissuto goduto subito fascismo e boom economico, illusioni e sconfitte collettive e personali, dubbi e certezze (nel regime, nella resistenza, nel recupero straordinario del secondo dopoguerra, nelle lancinanti delusioni politiche e ideologiche del secondo Novecento). Il mosaico che tessera dopo tessera, libro dopo libro, Bigiaretti ha composto dell'Italia novecentesca ha insomma a protagonista non il Libero Bigiaretti anagrafico, ma un italiano qualsiasi, che, come lo scrittore, ha i connotati di un testimone del proprio tempo, attivo quanto basta per porsi degli interrogativi, per ragionare sugli accadimenti, per confrontarsi con persone che insieme a lui percorrono un certo cammino esistenziale e ideologico; e per approdare magari a una qualche illazione sui tanti e poco sondabili perché generati da un'epoca fervidissima e insieme tragica e crudele, contraddittoria e straordinariamente fertile. Proprio per far assurgere la propria esperienza autobiografica a exemplum credibile perché vissuto, Bigiaretti non concede mai spazio - neppure dove la memoria lo preme con maggiore perentorietà, voglio dire nei ricordi di famiglia - alle deformanti sirene della rievocazione sentimentale, di un recupero del passato unicamente intriso di personali malinconie. Chi come me ha avuto la chance di frequentarlo e di conoscere anche i suoi familiari, può testimoniare quanta carica di verità, non di rado anche impietosa, viva nei ritratti del padre o dei fratelli: che proprio per questa carica di verità riescono ad essere solo personaggi, e personaggi di notevole spessore narrativo, indipendentemente dal loro eventuale modello vivente.

Che dire poi dell'intensità con la quale sono rievocati alcuni fondamentali momenti d'emozione e di riflessione che chiunque, solo con un po' di impegno, può scoprire e gustare in tutti i suoi libri; che dire della sua onesta, intensamente partecipe "storia di un uomo" che ha vissuto un'epoca di speranze e di fervori, e che la restituisce con grande fedeltà non con l'aria di dirci: "come sono bravo", ma con quello di dire "come sono stato fortunato a vivere un'epoca così".

La presenza effettiva di uno scrittore è quella che si protrae nel tempo. Non ci sono répechages di sorta, per quanto abilmente concertati e rumorosamente organizzati, che possano far resuscitare lazzari irrimediabilmente cadaveri. A Bigiaretti accade invece che ogni riproposta editoriale e ogni inedito che venga dato alla luce rafforzino la sua immagine di scrittore, lo facciano sentire vivo, attuale, ne confermino le qualità. E riaccendano di nuovo in noi, vivi in questo mondo che sembra spingere sempre più indietro i valori umanistici, la fiducia nella letteratura: che in uno degli Esercizi di dattilografia (p. 15) Libero ha felicemente definito il solo escamotage che sia dato all'uomo "per non morire del tutto, per essere rammentato e rammentare lui stesso" .